La
versione di Latino di domani è troppo importante. Rischio di essere rimandato,
dopo il 4 e il 5 e mezzo delle ultime prove. Un’altra estate con questo peso
non potrei sopportarla. Mi capitasse un Cicerone, sarei felice. Di meno con
Tacito, che per me è imprevedibile! Ma il 4, l’ho preso addirittura con Cesare,
che dovrebbe essere il più semplice….
Il fatto è che odio dover tradurre, odio la grammatica tanto
quanto amo la letteratura latina. Mi ritrovo qui, all’una di notte, a cercare
di prepararmi con scarsissima motivazione perché so che il testo potrà sempre
fregarmi.
Io voglio portarla al mare, quest’estate. In Grecia, per un
mese intero. Senza dover pensare all’esame di riparazione.
Accendo il televisore in camera. I canali locali già propongono
le donne nude e ammiccanti, da chiamare subito. Su Rete 4 è iniziato un vecchio
film di terza serata, mentre il sipario si sta abbassando sul Maurizio Costanzo
Show. Cambio canale ad un ritmo forsennato, approdando ad un telegiornale.
…A Palazzo di Giustizia
gli imprenditori fanno la fila per rivelare al pubblico ministero Di Pietro di
aver pagato tangenti ai politici, giustificandosi con l’evidenza di un
comportamento generalizzato….
Qui sta venendo giù tutto. Ho ancora nella mente i giorni
delle stragi, con la morte di Falcone e Borsellino e delle loro scorte. È già
passato un anno. Non ci capisco molto di politica, ma quel giorno….
Il giorno in cui hanno ucciso Borsellino c’era la festa in
paese. Ci siamo seduti al pomeriggio sull’alta pedana in acciaio che conduceva
alla sala giochi. Eravamo increduli. Rino, Giorgio, il Teo. Li avevo visti
poco, durante l’anno. Il Liceo ci ha divisi, alla fine. Ma stare seduti a breve
distanza l’uno dall’altro, in un silenzio interrotto da poche e stentoree parole
(«l’hanno ammazzato», «è finita», «non ci credo», «e ora?»), era come
abbracciarsi e farsi forza mentre tutto ci spingeva a piangere. Fermi. Feriti.
Confusi. Tornati da una guerra. Alla vigilia di una guerra.
Sono esausto, voglio solo dormire. Bob Marley mi sorride
ancora una volta dal poster appeso alla parete del convitto in cui vivo, nove
mesi all’anno dal lunedì al sabato. Mi addormento bene, alla fine.
* * *
Perché
continuo a pensare a lui? I fiori di questa primavera mi sembrano più
splendenti, più colorati e sorridenti che mai. Le ciliegie spuntano sugli
alberi dopo la galleria, mentre il treno percorre la solita traiettoria
quotidiana.
Oggi lo rivedrò di nuovo, dopo la scuola. Staremo assieme
nelle prime ore del pomeriggio, prima del corso di teatro che entrambi
frequentiamo. Dove ci siamo conosciuti, otto mesi fa. Piano piano, è cambiato
qualcosa fra di noi. Prima si scherzava insieme, lui mi prendeva in giro e
pensavo di stargli antipatica.
Intanto ha cominciato ad accompagnarmi alla stazione. A
raccontarmi di lui, della sua vita. Le volte in cui non poteva venire a teatro,
mi mancava. Era una delusione non ritrovarlo. È sempre più una delusione,
mentre è sempre più forte la gioia quando lo rivedo.
In Grecia, vuole portarmi. In vacanza, questa estate. Solo da
amica? Ora basta fantasticare! Ho il libro di Storia sulle ginocchia, stavo
ripassando perché oggi la Tirelli interroga a sorpresa. Monta l’ansia per il
sorteggio. Ma dopo lo vedrò, forse è solo questo che conta.
***
Non
so se essere infinitamente grata o infinitamente incazzata con chi ha inventato
whatsapp. Tutte queste notifiche,
ancorché silenziate, mi ossessionano! Ma ne sono dipendente, ormai. E in mezzo
alla foga comunicativa, rischio di perdere di vista proprio i suoi, di messaggi.
Corro a rileggere l’ultimo, per avere l’ennesima conferma. OK. Vediamoci al solito bar alle tre. A dopo.
Una frase asettica, banale. Ma così sperata. Niente di eccezionale, non mi ha
chiesto di scappare con lui alle Maldive. Avrei voluto?
Era da tempo che non mi sentivo così. Lui è giovane. E bello.
L’ho notato subito, la prima volta. Stava in alto, sollevato da una gru, a
restaurare l’esterno del Duomo, con infinita pazienza. Mi fermavo ad osservare
l’avanzamento dei restauri, mentre lui continuava il suo lavoro certosino.
Finché un giorno non si è girato, e mi ha sorriso. Il giorno dopo, sembrava
aspettarmi. Mi ha salutato e si è presentato. Io ho fatto lo stesso.
Ci siamo parlati, ogni giorno di più. Temevo di condizionare
il suo lavoro. Hai visto mai che possa essere io la causa di un cattivo
recupero di un edificio di mille anni? Ci siamo concessi un caffè insieme. La
pausa non finiva più, tanto che i colleghi sono dovuti venire a chiamarlo.
Oggi ci rivedremo. Niente di che, sono le solite quattro chiacchiere.
Ma se avesse risposto di no, la mia delusione sarebbe stata enorme.
Un altro sguardo al cellulare mi ricorda le coordinate della
mia vita. Il mio mestiere di veterinaria, prima di tutto. Con le emergenze più
o meno reali dei miei pazienti, o meglio dei loro ansiosissimi “genitori”.
È andata. Ti voglio
bene. Un altro
gradito messaggio.
Devo guardarmi allo specchio, assolutamente. Non ho avuto
tempo di rifarmi il trucco. Devo entrare in un bar e sperare che in bagno ci
sia uno specchio.
«Un bicchiere d’acqua, no di…aranciata…ehm…ha i chewing-gum,
per caso? Oops, non li vedevo, quanto le devo? ... OK, posso usare il bagno? … A
destra e poi a sinistra, ha detto? Ah no, il contrario … spero di trovarlo.»
Sono campionessa di non individuazione dei bagni nei locali.
«Fa che ci sia lo specchio…» penso. Non c’è, ovviamente.
***
«Ricordo
ancora i lunghissimi secondi del terremoto. Ci sono momenti, troppi momenti, in
cui ho l’impressione che l’incubo si ripeta». Così lei mi ha detto in un
momento in cui sentiva, evidentemente, il bisogno di sfogarsi. L’ha fatto con
me, rendendomi fiero della considerazione che mi ha dimostrato.
È anche un peso, però. Il peso di un dolore forte, intimo.
Che sento, adesso, anche mio. La perdita di un nipotino sotto le macerie.
Volato in cielo assieme al suo papà e alla sua mamma. La catastrofe ha
annullato l’intera famiglia di sua sorella. Non sono riuscito a trattenere le
lacrime. Io che non piango mai. Sempre lucido, razionale. Convinto che certe
cose possano capitare solo agli altri. I fatalisti guardano avanti, archiviando
le tragedie con l’evidenza che così doveva accadere, era destino. «Dio li ha
presi con sé, sotto la propria ala misericordiosa». Ma vogliamo parlare di chi
rimane? Perché è successo proprio a lui, proprio a lei? Dio gioca forse a dadi
con i destini dei suoi figli?
Ho respirato nell’abisso più torbido, quando mi sono
immedesimato in lei. Voglio proteggerla. Altre volte, mi capitava di voler
scappare dal male. Ora sento un desiderio irrefrenabile di lenire la sua
ferita. Lei, così fragile e così forte. Devo rivederla.
Il lavoro ci ha fatti incontrare, lontani da casa. Cinque
giorni, mi rendo conto ora, hanno avuto per me l’intensità di cinque anni
fianco a fianco. Non voglio più scappare. E neppure aspettare. Le mando un
vocale, subito.
Ciao, io…devo venire
dalle tue parti….oggi…devo incontrare un agente, sai…Ti volevo chiedere solo
se…se stasera fossi libera….magari potremmo…ma solo se sei libera….potremmo
incontrarci…per un saluto….ma se non puoi non fa niente, ovvio…ecco…ciao.
Inviato. Quando si colora quella maledetta tacchetta? Due
tacchette ci sono, deve solo aprire il messaggio…Apri il messaggio! Faccio
altro, mentre aspetto. Non resisto, devo ricontrollare. Poi ancora.
Maledizione, cosa mi sono messo in testa? Scrivo una mail al mio capo. Non
voglio vedere, non voglio. E non lo farò. Lo faccio. Le tacche sono entrambe
colorate! Lei sta scrivendo. Sì, lo sta facendo. Ora ha smesso. Poi ricomincia,
e smette. Quanto scrive? Se il testo è lungo, vuol dire che sta trovando una
giustificazione per dirmi di no…è così, senz’altro. Forse si trova in un posto
in cui non può scrivere…o può farlo solo con una lettera alla volta…Non mi
arriva la risposta. Non arriva. E se arrivasse, sarebbe negativa. La luce del telefonino
si spegne in automatico. Io mi alzo, ho bisogno di uscire dall’ufficio.
Arrivo alla porta, afferro la maniglia. Mentre la tiro, il
suono inconfondibile della notifica mi trattiene. Corro al cellulare. Certo. Mi fa piacere. Fammi squillo quando
arrivi.
Sto già partendo in macchina. Arrivo.
***
La
vedo spuntare da dietro l’angolo, con il walkman e le cuffie, ed il suo zaino
in spalla accompagnato da una sobria sacca per l’ora di ginnastica, penzolante
da una lunga corda che, mi accorgo, stringendo il suo petto le valorizza i seni
piccoli ma perfetti, sempre sacrificati da quei maglioni troppo grandi.
Mi sorride appena mi vede. Sembra felice di vedermi. Felice,
ma con moderazione. Una felicità contenuta, ma pur sempre felicità, spero io.
«Ciao.»
«Ciao» mi risponde.
«Come è andata? Ti ha interrogato?»
«Per fortuna no. Ma il sorteggio è un metodo sadico,
dovrebbero proibirlo come lesione ai diritti umani degli adolescenti. E la tua
versione?»
«Tito Livio. Dopo tutto, mi pare che non sia andata male.
Volevo confrontarmi con Marcello, ma quello dice sempre che gli è andata male e
non vuole mai parlarne dopo. Si tappa le orecchie e gira per i corridoi della
scuola come uno zombie. Poi ovviamente gli va sempre bene, e io mi incazzo…»
Sorride. Sorrido anch’io. Ci avviamo, senza dire niente.
Forse riesco a capire l’espressione “sento le farfalle nello stomaco”. Sono
felice di essere qui, ora, di camminare con lei. Da un lato, vorrei
dichiararmi. Dirle qualcosa sul nostro rapporto. Ma cosa? Fidanziamoci? Mi vuoi bene come io ne voglio a te? Possiamo
frequentarci non più solo da amici? E via perifrasando. È forse più comodo,
invece, continuare così. Aspettare. Se accelero, potrei rimanere deluso. Però
vorrei baciarla. Abbracciarla. Toccarla.
«Sei silenzioso, oggi….»
«Io….ecco…stavo solo pensando alla versione…».
Si ferma. «Volevo parlarti».
Vuole parlarmi? Cosa vorrà dirmi? Ho forse fatto qualcosa di
male?
«Dimmi pure….ti ascolto….»
La vedo esitare. Prova i miei stessi sentimenti? Se così non
fosse, vorrei che mi parlasse del tempo, della scuola, dell’ultimo CD di Sting.
«Ho conosciuto un ragazzo…»
Bastano davvero quattro misere parole in fila a distruggere
una speranza? Prima di adesso mi sarei messo a ridere a sentirlo affermare,
eppure la mia sensazione è esattamente questa.
«Ah…sì? B..bene ma…perché me lo dici?»
«Sto bene con lui, da amica. Solo che….c’è qualcosa di
più…c’è la voglia di stare sempre con lui. Quando non lo vedo, vorrei sempre
telefonargli. Citando “Gli Innamorati” di Tozzi, me ne fregherei della SIP…»
Sorride. Mi sta spezzando il cuore, e pure sorride? Mi guarda
negli occhi. Occhi verdi, bellissimi. Voglio leggerli e ….ritrovare quello che
cerco. Non posso essermi sbagliato.
«Ehm…sono io quel ragazzo?»
Silenzio. Lei mi guarda…
«Eccovi, finalmente! Iniziano le prove, muovetevi! Il regista
è già in platea, correte!».
***
Quando
gli ho detto del ragazzo, volevo fargli uno scherzo. Ma poco dopo, ancora
mentre parlavo, mi sono sentita inutilmente crudele, e avrei voluto tornare
indietro. La sua reazione mi ha, peraltro, confermato ciò che speravo. Ero,
quindi, al settimo cielo sentendomi, contemporaneamente, in colpa.
«Sì, ma certo!» gli avrei risposto, ma sono venuti a
chiamarci e non abbiamo più potuto parlare. Se non attraverso la rappresentazione.
Due ruoli secondari, i nostri, nel Riccardo
III. Solo poche parole, fra di noi, non studiate per esprimere un
sentimento amoroso. Ma ho sentito forte l’attesa di quel momento, pur
fuggevole.
Siamo tornati a casa, senza più incrociarci. Ed ora sono qui,
nella mia camera.
Suona il telefono. Sarà lui? No, la mamma si sta
intrattenendo troppo alla cornetta. Sarà la nonna, o la zia. Un altro squillo.
Stavolta la mamma mi chiama. Corro. La vedo con la cornetta in mano.
«È Sonia.»
«Ah…OK. Pronto Sonia, ciao, dimmi….»
La sento e non la sento. Continua a parlare, così tiene
occupata la mia linea, accidenti! Lo devo chiamare io, dopo questa telefonata.
Mi invento una scusa…che so, ho perso una
sciarpa proprio oggi a teatro, l’hai vista? Ci tengo tanto….
«Allora ciao, a domani» sento dire dall’altra parte della
cornetta.
«Ciao a te…ciao Sonia» e metto giù. Rialzo il telefono e
faccio il numero, che già conosco a memoria.
Sento la TV in sala, c’è un dibattito politico in vista delle
prossime elezioni amministrative. Ma l’attenzione è in realtà sulla politica
nazionale, che ormai utilizza in modo sempre più frequente gli epiteti
insultanti di ladro, corrotto, tangentista, eccetera.
«Pronto, buonasera, vorrei parlare con…»
«Sono io…ciao.»
«Ciao …scusami se ti chiamo a quest’ora, ma…mi sono accorta
di aver perso oggi quella sciarpa che mi piace tanto, non l’hai forse trovata
tu a teatro?»
«Veramente no, ma … ricordo di avertela vista addosso mentre
tornavi a casa….».
«Oh…sei sicuro?» Imbarazzo! «Allora l’avrò persa per
strada….».
«Forse quando hai incontrato quel tuo amico di cui mi
parlavi?» sembra scherzoso.
«Senti…ecco…volevo darti una risposta….io….ecco…».
«Non ce n’è bisogno. Ci vediamo domani?».
«Domani? Beh certo…domani.»
«Buonanotte allora….io senza dubbio ti penserò!»
Il mio cuore si ferma per un frammento di istante. «Anch’io»
rispondo goffamente, «anch’io.»
FINE PRIMA PARTE
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